Il furto al “self service”


etichettaTribunale di Bologna, in composizione monocratica, sentenza n. 835 del 23 marzo 2010, Giudice Dott.ssa Palladino

Delitti contro il patrimonio – Furto in esercizio commerciale – Sostituzione di etichette ed utilizzo della cassa self-service – Astuzia idonea ad eludere la ordinaria vigilanza – Circostanza aggravante – Configurabilità
(c.p. artt. 624, 625)
Integra la fattispecie delittuosa di cui all’art. 624 c.p., aggravata ex art. 625, n. 4, c.p., la condotta dell’agente che al fine di impossessarsi di determinati beni dal valore non irrilevante (nella specie, un hard disk e due casse per i-pod), provveda alla sostituzione delle etichette presenti su di essi con quelle relative ad altri beni di valore irrisorio (nella specie, prodotti ortofrutticoli) ed a tal fine utilizzi la cassa self-service dell’esercizio commerciale sottraendosi a qualsivoglia controllo.


Il fatto
A seguito di arresto in flagranza, l’imputato veniva tratto a giudizio con l’accusa di  essersi impossessato di alcuni apparecchi elettronici venduti all’interno di un ipermercato.
In specie, a seguito di segnalazione di allarme sonora di una cassa self service (cioè priva di personale operante e regolata da un meccanismo di pagamento automatico), all’esito di regolare controllo da parte degli addetti alla vigilanza dell’esercizio commerciale, il prevenuto risultava aver acquistato merce previa sostituzione delle originarie etichette identificative della stessa con altre riferibili, invece, a prodotti di modico valore.
Il Pubblico Ministero procedeva, pertanto, a contestare all’autore del fatto l’ipotesi di furto aggravato dalla circostanza di cui all’art. 625, n. 4, c.p. per aver usato destrezza nella perpetrazione dell’illecito.

I motivi della decisione
Il Tribunale di Bologna ha ritenuto colpevole l’imputato, affermando, in parte motiva, che la sostituzione delle etichette, unitamente alla scelta di utilizzare la cassa “self service”, integra la destrezza prevista dall’art. 625, n. 4, c.p., giacchè astuzia idonea ad eludere l’ordinaria vigilanza ed essendo irrilevante che il furto sia stato scoperto poco dopo la sua consumazione.

Poiché, inoltre, la sottrazione non è avvenuta sotto la vigilanza dell’offeso o di un suo incaricato, i quali avrebbero potuto così bloccare l’azione criminosa, ma è stata interamente realizzata e scoperta successivamente, seppur a brevissima distanza di tempo, reputa il Giudice che la fattispecie integri gli estremi del reato consumato e non di un mero tentativo.
Da ultimo, il Tribunale esclude che il prevenuto abbia potuto agire in buona fede, poiché lo stesso, al momento dell’accertamento, aveva già oltrepassato la barriera della cassa e si stava allontanando con la merce senza averla, di fatto, pagata; se fosse stato in buona fede, una volta riscontrato alla cassa “self service” che i beni non recavano le etichette originali (quantomeno, tenuto conto del diverso valore di prezzo indicato), l’imputato non avrebbe portato a termine le operazioni di pagamento, ma si sarebbe rivolto al personale dell’ipermercato.


Considerazioni
La pronuncia in esame presenta qualche profilo di criticità in ordine al corretto inquadramento della ravvisata circostanza aggravante di cui all’art. 625 c.p.
Il Tribunale ha, invero, correttamente ricordato che trovano collocazione nell’ipotesi contemplata al n. 4 della norma (che contempla il c.d. furto con destrezza) tutti quei comportamenti connotati da particolare agilità, sveltezza, callido artificio nonchè atteggiamenti, mosse o manovre particolarmente scaltre ed ingannevoli, tali da eludere la pur vigile attenzione dell’uomo medio impedendogli di prevenire la sottrazione delle cose in suo possesso opponendovisi tempestivamente ed in costanza del fatto, senza che perciò possa assumere rilievo il fatto che la sottrazione sia scoperta anche subito dopo il suo avverarsi (Cass. pen. Sez. V, 14.06.2004, n. 2664; Cass. pen., Sez. IV, 13.11.1998, n. 13491; Cass. Pen., 3434/1999).
La destrezza, pertanto, consiste in una particolare abilità dell’agente, tale da menomare apprezzabilmente la capacità difensiva e la vigilanza del proprietario della cosa, comunque esse si prospettino nel momento di commissione del fatto e, quindi, anche laddove si traducano in una custodia precaria (Cass. pen. Sez. V, 23.03.2005, n. 1526).
Proprio per questo, ci pare, tuttavia, che la fattispecie sottoposta all’esame del Tribunale di Bologna denoti un diverso comportamento dell’agente, pur sempre sanzionato all’interno dell’aggravante in esame, ma caratterizzato da una condotta posta in essere mediante violenza sulle cose (art. 625, n. 2, c.p.).
E ciò sul presupposto che le etichette apposte sugli oggetti esposti nei grandi magazzini sono strumento materiale atto a garantire, tra l’altro, una più efficace difesa del patrimonio; in quanto tale, la sua manomissione, finalizzata al furto dell’oggetto, non può che concretizzarsi in un comportamento “violento” sul bene in questione, il cui ripristino richiede un’attività più o meno complessa.
I Giudici del Supremo Collegio hanno, per esempio, ravvisato l’aggravante di cui all’art. 625, n. 2, c.p. nello strappo dei presidi magnetici inseriti su alcuni capi di merce offerti in vendita nei grandi magazzini e destinata ad attivare i segnalatori acustici ai varchi d’uscita, poiché  essa costituisce mezzo di difesa approntato per quegli oggetti maggiormente esposti al rischio di essere prelevati dai banchi, senza essere presentati alla cassa per il pagamento (Cass. pen. Sez. V, 14-01-1993, n. 2433).
Peraltro, ai fini della configurabilità dell’aggravante in esame, non è necessario che la violenza venga esercitata direttamente sulla res oggetto dell’impossessamento, ben potendosi configurare quando venga posta in essere nei confronti anche di uno strumento materiale inserito sulla merce offerta in vendita (Cass. pen., Sez. IV,  16-01-2004, n. 7235).
In questo senso, rimuovere l’etichetta identificativa del bene sostituendola con altra, è azione che, principalmente, incide sul bene, giacché  ne modifica le caratteristiche  oggettive, laddove, viceversa, la condotta di “destrezza” è comportamento che opera, primariamente, sulla persona del derubato e non sull’oggetto dell’impossessamento.
E ciò in quanto tale comportamento è mirato all’approfittamento di una qualunque situazione di tempo e di luogo idonea a svisare l’attenzione della persona offesa, distogliendola dal controllo e dal possesso della cosa (Cass. pen. Sez. III, 01-10-2007, n. 35872; Sez. I, 25-3-1998, n. 3763).
Tanto è vero che ai fini dell’aggravante di cui al n. 4 dell’art. 625 c.p. è sufficiente che l’agente tragga vantaggio da un generico contesto, soggettivo od oggettivo, che risulti favorevole per eludere la normale vigilanza dell’uomo medio ed è, pertanto, sufficiente che l’atteggiamento posto in essere sia idoneo ad attenuare la normale attenzione della parte lesa nel mantenere il controllo ovvero la vigilanza sulla cosa, rientrando nel concetto di destrezza qualsiasi modalità dell’azione furtiva idonea a non destare l’attenzione suddetta.
In conclusione, dunque, l’impostazione più corretta e maggiormente aderente al tessuto normativo, suggerisce di assumere il fatto portato al giudizio del Tribunale di Bologna in un’ipotesi di furto, aggravato dall’uso di violenza sulle cose.